Se devo essere onesta, non so bene da dove cominciare la mia riflessione. Non perché io non abbia idee o commenti da fare, ma perché questi mi giungono alla mente come un flusso sfrenato che non riesco a controllare, così come i pensieri si scagliavano nella mente del protagonista. Okay, forse potrei partire proprio da qui, da lui. Dal ragazzo senza nome, un ragazzo comune, che fa cose comuni, con il banale desiderio di avere una famiglia non tanto diversa, quanto felice. Ma non è questo il suo destino. Il suo “vialetto della vita”, quel tragitto segnato apposta per noi, è un continuo precipitare, il cui fondo sono le parole di sua mamma: “è un tumore”. Ed è da qua che ha origine l’incendio, del quale lui è al centro.
La connessione tra “incendio” e quella che è la “tragedia che ci ha segnati e non ci abbandonerà mai più per il resto della nostra esistenza” è un ponte logico alquanto efficace e rappresentativo. Racchiude perfettamente l’effetto che un evento o, come in questo caso, una serie di parole, scaturiscono in noi. Il tema del fuoco che infiamma l’animo non è sicuramente un topos ideato da Michele Arena, anzi, lo ritroviamo, ad esempio, nei componimenti dei poeti stilnovistici, quindi in Gucciardini ed i suoi spiritelli, oppure in Guinizzelli, ma anche nella Didone di Virgilio. L’ardore narrato da questi autori fa tuttavia riferimento all’animo di un amante che viene trafitto e vinto dal sentimento d’Amore per la donna, o per Enea, nel caso della regina di Cartagine. In realtà, anche l’incendio del protagonista del romanzo di Arena è dato dall’amore, che però presenta una sfumatura diversa. Questo è il sentimento che lega non due innamorati, ma il figlio e propria madre, e che è radicato in quest’ultimo fin dalla nascita, proprio a causa del rapporto tra creatrice e creato che si è instaurato.
Questo è un libro terribilmente onesto e realistico, guarda ad una realtà così intima ma allo stesso tempo tanto universale da poter essere applicata a chiunque. Da qua deriva, presumo, la scelta dell’autore di non attribuire un nome al personaggio principale, di modo che questo fosse lo specchio del lettore. Trovo che questo espediente sia a dir poco brillante, come lo è la scelta di uno stile semplice e diretto, ma ricco tuttavia di immagini che forniscono una percezione più nitida della realtà descritta.
Spesso diciamo “mi sono davvero immedesimata nel personaggio, sono riuscita a captare in tutto e per tutto le sue emozioni”, una frase fatta sentita e risentita, che, per quanto banale, si applica perfettamente a questa lettura. Il mio cuore ha sussultato assieme a quello di lui, si è frantumato di fronte a quella parola di sei lettere. La mia mente ha iniziato a correre all’impazzata nel momento in cui lui ha fatto lo stesso. Ho provato disgusto di fronte alle scene più delicate ma allo stesso tempo più umane. Ho desiderato che Ismail prendesse il suo amico per mano e lo salvasse, invece di abbandonarlo. Non mi sono capacitata della reazione così impassibile del protagonista, della sua passività, ed ho pian piano appreso che la sua non era indifferenza, ma incapacità prendere piena consapevolezza della la realtà. E mi sono arrabbiata così tanto di fronte al loro silenzio, a tutte quelle cose non dette, che avrei voluto urlare al posto loro.
Questo libro, mi ha fatto immedesimare in mia nonna, che è stata al fianco di mio nonno fino all’ultimo, guardando in faccia la realtà attraverso le lenti dell’amore.
Questo libro mi ha portata a guardare mia mamma con occhi diversi, realizzando quanto duro sia stato affrontare la malattia di suo padre.
Questo libro mi ha terrorizzata, perché adesso è mia nonna che ha un tumore, ed io voglio solo scappare da questo incendio.